La Valmarecchia toscana è luogo di incontri, programmati e non, che sanno colpire nel profondo. Storie di chi ha scelto una vita diversa portandola avanti con orgoglio e passione.








La Valmarecchia è un territorio eterogeneo, unito dalle acque del suo fiume. Nei settanta kilometri di tragitto, il Marecchia incontra l’appennino e la pianura, il borgo e la città, superando confini politici e amministrativi. Scoprire nuovi angoli di questa lingua di terra non dovrebbe quindi creare particolare stupore; eppure, da camminatori esperti quali ci riteniamo, abbiamo talvolta la sensazione di aver già detto tutto. E nel momento in cui ci apprestiamo a valutazioni superficiali, puntuale arriva la smentita, costringendoci a reinterrogarci su cosa vuol dire veramente conoscere un territorio.
Il comune di Badia Tedalda è quasi perfettamente a metà fra Rimini e Arezzo, nonostante sia amministrativamente già Toscana. Qui, nella frazione di Pratieghi, nasce il fiume Marecchia. Paradossalmente, si ha difficoltà ad accogliere questo territorio nel concetto di Valmarecchia, abituati a sovrapporre questa entità storica, geografica e culturale con la sola provincia di Rimini. Cosa potremmo perderci? Viene da chiedersi. Piccoli paesini abitati ancora da qualche nostalgico. La Valmarecchia che conosciamo non è forse quella dei dolci colli di San Leo e Torriana, Verucchio e Talamello?
A onor del vero, questa pillola di Valmarecchia nasce come il più classico dei trekking autunnali: partenza da Rofelle (di cui avremo modo di parlare) e giro ad anello seguendo il sentiero BT4, passando per Montebotolino, Fresciano e Tramarecchia. Non certo un’escursione improvvisata: in settimana avevamo disegnato il percorso, calcolato lunghezza e dislivello, chiesto alla Pro Loco di Badia informazioni accurate… Ebbene, alla prova dei fatti ci trovammo di fronte a un sentiero accidentato, fatto di frane e cantieri in corso, che ci costrinse a ridimensionare il giro fermandoci a Fresciano e a tornare a Rofelle per la stessa strada dell’andata.


Nonostante gli imprevisti riscontrati, non possiamo non spendere qualche parola per Montebotolino, paesino fra i più panoramici della Valmarecchia. Costruito praticamente a strapiombo sulla sinistra orografica del Marecchia, offre una visuale che vale il freddo e il vento patiti. Le suggestive case in pietra dal tetto rosso, oggi riconvertite a residenze estive, ci riportano a un passato fatto di fatica e miseria. Tonino Guerra descriveva così le condizioni di vita degli abitanti di Montebotolino:
«Certe sere i casoni di Montebotolino volano via e sembrano delle macchie rosa sopra una tela trasparente. D’inverno, se piove, restano coi piedi dentro le pozzanghere e l’acqua gli scivola addosso come se fossero delle rocce.»






Tornando a Rofelle per pranzo, pensavamo che la giornata fosse sul calare. Al contrario, questo articolo nasce per raccontare e trasmettere quello che successe dopo la cammminata. Piero, il proprietario dell’Erbhosteria, è sulla porta ad attenderci. Ci invita ad entrare, visto il ritardo accumulato. E’ sabato e il locale è aperto solo per noi: l’ampia sala da pranzo, silenziosa e priva di avventori, sembra un museo. Foto d’epoca, dediche, ricordi di chi è passato da qui. Ogni cosa parla di questa attività e del territorio che Piero e la sua famiglia sanno raccontare, di generazione in generazione, dal 1917.



Si inizia. Piero si avvicina con un’ampolla, servendo del vino bianco aromatizzato ai petali di rosa. Un benvenuto che ci incuriosisce e fa vacillare ogni nostro preconcetto sul pranzo. Poi gli antipasti. Le portate si susseguono velocemente: non si tratta di piatti da intendere come esaustivi in sé, quanto come tasselli, tappe di un viaggio. Ogni boccone racconta di prodotti locali, perlopiù vegetali, che rispecchiano la stagione e la disponibilità. Intanto, cresce la consapevolezza di trovarsi in un posto che non fa semplicemente cibo, ma propone un modello culturale, così antico da essere per molti di noi straordinariamente nuovo.
















Dall’alto al basso, da sinistra a destra: vino bianco aromatizzato ai petali di rosa; crostino cavolo nero, funghi e dragoncelli, pomodorini, ricottina con borragine; polentine fritte con ortiche; tortino con achillea; crostino di funghi porcini; gnocchetto fritto ai semi di papavero e raviggiolo; sfoglia di pere e formaggio; tortino con pungitopo; mix di erbe e fiori di campo; panzanella; vellutata di stridoli; tagliatelle ai porcini; tortelli zucca e tartufo; foglie fritte di borragine; faraona con fegatini; dolce della casa.
Fra una portata e l’altra, Piero ci mette del suo. Da vero padrone di casa, non si limita a servire, ma cerca di intessere una relazione con noi. Testa con domande puntigliose la nostra conoscenza sui fiori e le erbe utilizzati. A ogni nostra mancata risposta, scorgiamo il suo orgoglio nel presentarci prodotti unici, tanto vicini a noi quanto dimenticati. E non si ferma qui. A mano a mano che ci conosciamo, Piero racconta aneddoti, persone, storie di vita vissuta. Ci racconta di quando Roberto Benigni, ancora ragazzo, frequentava l’Erbhosteria; durante un pranzo, in uno slancio artistico compose su un tovagliolo un acrostico dedicato alla mamma di Piero, oggi incorniciato ed esposto. Leggendocelo, si percepisce l’emozione.
Dopo quasi tre ore, ci alziamo da tavola. Complice il fatto di essere gli unici avventori della giornata, sentiamo di essere entrati in confidenza con la nostra guida. Vogliamo un ricordo dell’esperienza appena conclusa e chiediamo una foto con lui. Piero accetta più che volentieri; ed ecco uscire dalla cucina sua moglie Manuela, la vera interprete del territorio, che per tutto il pranzo ha lavorato per noi senza ricevere la meritata visibilità. Ci complimentiamo affettuosamente anche con lei, prima di regalarci la foto di gruppo della giornata.

Nelle nostre uscite per la valle, capita spesso di fare incontri. Alcuni programmati, come Piero, altri completamente casuali. E sono proprio questi di solito a regalarci qualcosa in più; forse a ricordarci che per quanto uno si sforzi a fare progetti, mettersi in viaggio è la condizione in cui si riceve in misura maggiore di quanto preventivato. Chiacchierando con un’abitante di Rofelle, scopriamo che il paese conserva un cippo di epoca romana. Bussiamo così alla porta di una vecchia scuola elementare, costruita durante il Ventennio. Ci risponde Stefania, che nonostante l’assenza di preavviso ci invita ad entrare in quella che ora è casa sua.





Dove c’era un’aula scolastica, ora è conservato il cippo romano. Stefania ci dice che doveva essere un monumento funebre esposto sulla Via Ariminensis, la via di collegamento fra Arezzo e Rimini. Questi territori, un tempo importanti crocevia, oggi sono borghi silenziosi avvolti dalla natura. Al riemergere del glorioso passato, gli abitanti hanno espresso la volontà di conservare il reperto in loco, piuttosto di ampliare la collezione di qualche museo dell’Aretino. La storia sa creare identità svolgendo un ruolo di fondamentale importanza per quei borghi minacciati dall’abbandono. Stefania lo sa bene. Le sue mani ripercorrono con saggezza i segni di incisioni, bassorilievi e simboli; evocano situazioni e paesaggi così forti e dettagliati da sembrare vivi.
La bellezza del reperto ha trovato un’interprete all’altezza. La sua passione trasuda capacità e cultura. Ci dice infatti di essere una restauratrice: dopo gli studi a Firenze, una vita fatta di lavori a progetto e pochi, pochissimi finanziamenti. “Lo faccio solo per passione, non per altro”, ci confida. Il controsenso di non valorizzare il talento di una professionista in un contesto di partenza privilegiato non ci lascia indifferenti. Stefania non appare però sconfitta. La sua è un’analisi lucida, da cui sono nate idee e progetti. Scopriamo infatti che gestisce la pagina Instagram “Gli Itinerari della Luna”, che seguivamo senza conoscerne l’autore. Un luogo di condivisione delle bellezze del territorio, dal punto di vista di chi lo vive. Inoltre organizza visite guidate, curando l’aspetto artistico delle escursioni. Ci scambiamo i contatti, con la promessa di collaborare a un progetto condiviso.
Stefania e Piero sono donne e uomini che han fatto la scelta di restare. Al di là dell’entusiasmo del turista occasionale, sarebbe disonesto non riconoscere che Rofelle non offre nulla. Nessuna attività, nessuna possibilità di crescita o di impiego. Il centro più vicino è Badia Tedalda, comunque di dimensioni molto contenute. Il dettaglio che stupisce è che entrambi avrebbero avuto sicuramente altri sbocchi. Hanno capacità maturate nel corso degli studi o del lavoro che avrebbero potuto spendere altrove, trovando meno difficoltà e probabilmente più soddisfazioni professionali. A questo punto la loro scelta acquisisce un peso specifico ancora maggiore.
Le storie di Pietro e Stefania ci regalano uno strano senso di inquietudine. In controtendenza con quanto sarebbe ragionevole pensare, abbiamo la sensazione di non aver ricevuto più di loro, pur disponendo di maggiori possibilità, quasi infinite. Forse troppe. Possiamo mangiare cibo da ogni parte del mondo ma ci emozioniamo con il sapore delle erbe dell’Appennino. Siamo così alla ricerca di relazioni che pensare di avere solo cinque o sei persone vicino ci sembra limitante; eppure rimaniamo sorpresi dalla storicità di certi rapporti, che sanno andare ben oltre quanto siamo in grado. La ricerca di un’idea o di un sapore, il tempo impiegato nel processo di elaborazione, la ripetitività di un gesto fatto con passione… Rimaniamo affascinati di fronte a chi è ricco avendo poco. Una ricchezza che ignoravamo, e di cui abbiamo estremo bisogno.
Pillola di Sabato 4 Novembre 2023, secondo anniversario della APS. Finra presenti: Andrea Pesaresi, Biagio Prencipe, Giacomo Soave, Eleonora Zanni, Matteo Cherubini, Francesco Bronzetti, Andrea Ottaviani, Irene Torresan, Elena Fusillo, Ivan Marcaccini. Infine, impossibile non citare il primo tentativo di esplorazione di Rofelle, datato il 31 ottobre 2020, ad opera di Francesco Bronzetti, Andrea Garattoni, Andrea Ottaviani.

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